Malaspina, viaggio extra-ordinario in «Mitteleuropa»

Ce lo siamo detti come in una apparizione miraggesca: «Ma questa è pura Mitteleuropa!». E non ci siamo stupiti. Osservando i quadri, e guardandoci negli occhi, è come se sapesse già che l’avrei detta all’improvviso, la parola-chiave, il grimaldello per definire i suoi lavori recenti.

 

Lui, Giovangiuseppe Cigliano alias Malaspina, è mio amico da una vita e fremeva all’idea di mostrarmi gli ultimi pezzi esposti in questi giorni al «Monzù», che è molto più di un food-corner-bar sul piazzale aragonese di Ischia Ponte (telefono: 081.991608), grazie all’intuito dei brillanti e giovani gestori che hanno desiderato – con successo – aggiungere l’arte in galleria al caffè-cornetto e all’eccellente gateau di patate…

Tant’è. E Mitteleuropa sia, anche per questo.

«Ho fatto 21 pezzi nel 2021, i numeri ricorrenti aggiungono forse un significato in più, e ho lavorato a super velocità giorno dopo giorno per meno di quattro mesi, dopo che mi sono passate davanti le immagini di alcuni artisti bulgari, certe linee strette, nuances originali e poi sculture: è stata una folgorazione. Un lampo. E mi sono immerso in un percorso assolutamente nuovo, dopo due anni di silenzio pittorico».

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Giovangiuseppe si spiega così. E credo che siano state quindici settimane di trance ispirativo-agonistica, un viaggio che Malaspina ha intrapreso, in andata e ritorno, nella madre geografica di ogni turbamento contemporaneo, l’Europa di mezzo, il cuore infranto di questi giorni, conferma di quella antica crisi dell’Occidente che è però reversibile ma non si può dimostrarlo se non attraverso la creatività esplosiva, la mina vagante dell’impulso individuale.

Il talento di Malaspina si è disinnescato e si offre allo spettatore come sintesi d’una miriade d’interrogativi intimi, d’accumuli di incertezze, d’insofferenze intermittenti parallele all’incubo della stagione Covid 19, e preludio di spasmi precognitivi che - a posteriori - leggo come se fossero rivolti alla guerra in Ucraina, alle vite sospese che stanno al mondo barcollando. Tutti noi.

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Astratte o forse no, a tratti surrealiste o forse no; magniloquenti per le lezioni kandiskiane, che non sono citate ma stanno lì, nelle vene del colore esuberante; e poi dichiarando gli sfruculiamenti delle avanguardie novecentesche queste tracce attualissime aprono e chiudono un ciclo: sono riuscite a dirmi tutto, distillando un valore eccellente che si fa storia in un baleno. Non hanno titolo, ma non sono completamente «ohne Titel», perché si certificano come «Opera n° 1; Opera n° 2, etc.». Non posso desiderare di più.

La pittata è stata famelica ed è anche, perciò, rivolta e rivoluzione: «Datemi un attimo di piacere, io so cosa farne!». Le tele sono piene, lavoratissime, ubriache di ricerca e di paura: quel tremore che sta sotto pelle, e che lascia poi spazio alla speciale e rara consapevolezza che l’arte si affida agli altri quando confida – con sfrontata umiltà - il proprio messaggio urgente di un’armonia che non ammette la cupezza. Non la ignora, la supera.

Malaspina è al culmine della maturità artistica. Quasi tutti i pezzi portano le sue molteplici firme caratteristiche. C’è la composizione degli spazi, necessaria per la regolamentazione dei rapporti cromatici; ed è squadratura e orientamento, limite allo sconfinamento del proprio fuoco epico in certe giornate vissute al chiuso, in atelier, ascoltando musica italiana molto pop. Avrei preferito note afroamericane, una sorta di blues, ma sarà per la prossima volta. Ah, ah.

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E poi i colori narrativi, finestra sul mondo, porta aperta che ci fa avvertire, percepire un’ansia leggera, un pizzico di malessere passeggero e viaggiante, perché sta dentro quel rutilante e immaginato (da me) backstage dei fasti imperiali asburgici ma pure in scia, su un battello, tra le malinconiche evanescenze danubiane.

Il mare sembra lontano. Così come apparirebbe diluita l’effervescenza esotica dei lavori precedenti. Ma non è così. Ben oltre il fatto che il destino ineluttabile della navigazione fluviale è proprio il mare, c’è un codice che ci conduce diritto all’immaginario nostro: è l’apparizione di una figura che funziona da comandante verso la rotta mediterranea necessaria (ed eccole, le barche, il ponte, l’azzurro!). Giovangiuseppe Cigliano è stato un marinaio globetrotter prima di trasformarsi in… Malaspina. Si trasfigura e si autoritrae? Può darsi.

La Mitteleuropa ha comunque bisogno del Sud.

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Quando la figura diventa più chiara, la sua genesi di auto-citazione divampa. Ed ecco che – nella tela dominata dal rosso e dall’ocra - si riflette, si sdoppia e si mostra per quello che è: una statuina, proprio come quelle terrecotte che stanno esposte a casa, ovvero il «Ristorarte Duilio» che si affaccia sul Lido.

L’evocazione di quel manufatto è la certificazione di una elegante post-produzione in questa escursione mitteleuropea affatto istintiva, ma alimentatrice, con ardore, finanche di un mito figulino molto ischitano che Giovangiuseppe ha, da anni, esaltato con intelligenza.

Siamo in piena attività mitopoietica? Ma sì. L’iterazione di figurine identitarie che di fatto sono interattive, coglie il bersaglio: giustificano la nascita e la conclusione di un ciclo funambolico breve e lanciato però nell’orbita della resistenza e della modernità sine die. Perché Malaspina non smette di lottare contro le recidive della (possibile) tristezza, sapendo che la gioia è più forte e si replica, pur senza mostrare il proprio volto.